Se la memoria non m’inganna, dovrei aver conosciuto gli Strokes nel 2006. Quell’anno la band americana, capitanata dall’eclettico Julian Casablancas, diede alle stampe “First Impressions of Earth”, terzo album d’inediti di una carriera cominciata sul finire degli anni Novanta. Ricordo che in televisione passava spesso il videoclip di Juicebox, scelto come singolo apripista per promuovere la pubblicazione dell’opera in questione. Il brano era interessante, fresco, immediato, indubbiamente radiofonico: qualcosa di gradevole e capace di coinvolgere.
Non ci fu una vera e propria folgorazione da parte mia, poiché in quei tre minuti e mezzo si percepiva talento e carisma, anche se non genialità disarmante (questo va detto). Tuttavia, da lì in poi mi interessai a quel quintetto giovane e sfrontato, all’epoca forse al massimo della propria notorietà, seppur non popolarissimo nello Stivale. Fatto sta che circa un anno e mezzo dopo conobbi un ragazzo in un locale di Roma dove lavoravo come cameriere, grande appassionato di musica come il sottoscritto e piuttosto legato alla musica della band.
Fu lui, attraverso ascolti continui in macchina di vari brani pubblicati fino a quel momento dagli Strokes, a farmi apprezzare particolarmente la scrittura, la composizione e il sound di un gruppo dedito a sviluppare un rock semplice ma valido, con delle belle chitarre elettriche distorte al punto giusto pronte a originare dei riff intriganti. Insomma, nel giro di poche settimane finii per andarci in fissa, sentendo a ripetizione i loro tre dischi pubblicati, incluso il già citato “First Impressions of Earth”.
Il coinvolgimento andò avanti a lungo, tanto che poi, nell’estate del 2008, a lui venne in mente di tirare su una cover band degli Strokes: intuizione niente male, poichè in quel periodo probabilmente non esistevano, almeno in Italia, formazioni simili. Lui, non sapendo suonare alcuno strumento, si sarebbe dedicato al canto, mentre il sottoscritto, mediocre suonatore di chitarra, avrebbe imbracciato la ritmica, facendo quindi le veci del buon Albert Hammond Jr. Dopo aver trovato altri tre elementi cominciammo a vederci in sala prove per suonare. Un bel momento, senza dubbio. Poi, purtroppo, gli impegni universitari e lavorativi mi impedirono di andare avanti, costringendomi quindi ad abbandonare il progetto che riuscì però a decollare, tenendo numerosi concerti a Roma e in provincia.
Per quanto riguarda l’intera produzione degli Strokes, ancora in attività e reduci dal rilascio di un bel lavoro in studio avvenuto nel 2020, l’album a cui resto maggiormente legato è “Is This It”, il fortunato esordio del 2001. Si tratta di un disco spericolato, arrembante, frutto dell’ingenuità e dell’entusiasmo di cinque giovanissimi musicisti uniti dal desiderio di farsi conoscere e di fare della musica una professione. Le vendite furono discrete, tanto da permettere in poco tempo alla band newyorkese di affermarsi anche in altri continenti anche attraverso intensissimi tour.
Sono sincero: mi ci è voluto un po’ per capire bene “Is This It”. All’inizio davo priorità ai successivi “Room on Fire” e “First Impressions”, probabilmente perché più diretti e più “puliti” a livello di produzione. Eppure, in maniera abbastanza graduale, grazie alle sue canzoni esplosive e trascinanti “Is This It” è stato in grado di rapirmi. Il tutto è accaduto in modo quasi impercettibile. Pian piano quegli undici pezzi in scaletta, tra cui gli immortali The Modern Age, Barely Legal, Someday e Last Nite, sono scivolati sotto la mia pelle, diventando parte di me.
Negli ultimi anni, per pura casualità, ho ascoltato pochissima musica di questi ragazzi. Poi, in primavera, in un’assolata domenica mattina di aprile da trascorrere in giro per Roma con la mia ragazza, ho aperto uno dei due porta cd che conservo gelosamente in macchina e, nell’aprirlo, mi sono ritrovato sotto gli occhi “Is This It”. L’ho inserito nello stereo e, arrivato alla terza traccia in scaletta, vale a dire Soma, mi sono reso conto per l’ennesima volta della validità di un lavoro simile. In un attimo sono tornato indietro di quasi quindici anni, respirando di nuovo certe sensazioni lontane e scaturite in un periodo della mia vita piuttosto bello, o comunque stimolante.
Credo sia il disco perfetto per avvicinarsi alla musica degli Strokes. Pur non essendo una pietra miliare del rock, riesce a farsi apprezzare da qualsiasi tipo di ascoltatore, quindi quello più esigente, dal palato fino, e quello invece meno esperto. Non penso che una qualità del genere sia così scontata, tantomeno diffusa. E allora lunga vita a “Is This It”, che a più di vent’anni dal suo arrivo nei negozi di dischi finisce sempre per creare dipendenza.
Alessandro
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