Ci sono voluti ben nove anni, ma il caro Roberto “Bob” Angelini, un amico vero, alla fine è riuscito a chiudere e a dare alle stampe il suo quinto album di inediti. Lo scorso 26 novembre ha visto la luce “Il cancello nel bosco”, disco che è l’ideale seguito di “Phineas Gage” del 2012 e che è stato pubblicato per conto della sua etichetta FioriRari, fondata parecchio tempo fa e al momento molto attiva dopo un periodo di stop.
Come tanti suoi estimatori, ero davvero curioso di sentire nuovo materiale da lui scritto e inciso. Del resto Bob è un artista al quale resto fortemente legato. Da “La vista concessa” in poi, quindi dal 2009 in avanti, non ho mai smesso di seguirlo, ponendo attenzione ai suoi svariati progetti paralleli e alle numerose collaborazioni con colleghi provenienti dai contesti più disparati.
Per me non è soltanto un musicista preparato e versatile, ma anche un autore valido, uno che quando ha tempo e cose da dire tira fuori puntualmente idee piuttosto interessanti. Da circa dieci anni a questa parte è continuamente preso dal lavoro, che vuol dire session di registrazione in studio con altri oppure tour in qualità di strumentista. Questo è il motivo principale che, in maniera graduale, lo ha costretto a limitare la produzione di materiale proprio.
Tuttavia Bob è uno abituato a scrivere in maniera costante, quasi come fosse un esercizio naturale, una sorta di terapia. Perciò, a lungo andare, finisce per accumulare canzoni e brani strumentali adatti a far parte di una raccolta di pezzi originali. Credo proprio che per “Il cancello nel bosco” le cose siano andate così: a forza di scrivere era riuscito a confezionare diverse tracce discrete che non conveniva tenere segrete e che, anzi, era giusto far sentire a chi continua a supportarlo.
Un po’ come il precedente “Phineas Gage”, anche “Il cancello nel bosco” contiene in parte brani cantati e, in parte, componimenti fatti di sola – ottima – musica. Se questi ultimi sembrano essere legati tra loro da uno stile riconoscibile, a dir poco elegante grazie alla presenza degli archi, le canzoni vere e proprie appaiono invece abbastanza eterogenee. Spiccano la brillantezza di Condor e Libellula, così come la delicatezza di Incognita, forse l’unico pezzo acustico e intimista dell’album. E poi ci sono l’esplosiva L’era glaciale, davvero deliziosa, l’ipnotica L’isola e Manicomio, quasi spiazzante per il suo stile molto diretto e moderno.
Non mi sento di ritenerlo il suo lavoro migliore, perché resto dell’idea che “La vista concessa”, ispiratissimo e profondo, resti inarrivabile sotto tanti punti di vista. È, però, un lavoro interessante, curato, convincente. Più lo si ascolta più ci si rende conto del gusto con il quale è stato costruito. E si nota anche il tanto impegno messo in campo per tirare fuori un qualcosa di assolutamente maturo e spontaneo, un qualcosa comunque nelle corde di un artista sempre incline a rinnovarsi e a rimettersi in discussione.
A vent’anni esatti dal suo esordio discografico con “Il Sig. Domani”, si può dire che Bob ci abbia fatto proprio un bel regalo. A dicembre ero a Largo Venue in occasione della presentazione ufficiale del progetto a Roma: con una formazione molto curiosa, ha regalato ai presenti un live di tutto rispetto.
Ora l’auspicio è che, terminata questa fase di incertezza generale dovuta alla pandemia, riesca a tornare a girare l’Italia con costanza per fare il pieno di affetto ed emozioni. Si merita indubbiamente questo e altro.
Alessandro
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