In tanti hanno celebrato nelle ultime settimane i primi trent’anni di vita di “Nevermind”, il secondo album in studio dato alle stampe dai Nirvana nel 1991, quello che consacrò la celebre band americana capitanata da Kurt Cobain, destinata da lì in poi a godere di una popolarità stupefacente. La pubblicazione avvenne il 24 settembre di quell’anno, e controllando il calendario leggo che era un martedì (da un po’ di tempo a questa parte, i dischi vengono rilasciati generalmente di venerdì).
Pochi giorni prima, le radio e i canali televisivi musicali di tutto il mondo avevano iniziato a diffondere Smells Like Teen Spirit, pezzo scelto come singolo apripista che, grazie a un’immediatezza sorprendente e a un bel tiro, fu in grado di attirare ben presto l’attenzione di milioni di persone, rapite dal semplice – quasi elementare – riff di chitarra e dall’inciso liberatorio.
All’epoca i Nirvana avevano alle spalle soltanto un disco, ovvero “Bleach”, uscito nel 1989. Un disco molto interessante, di stampo rock anche se ricolmo di elementi punk capaci di dargli un’impronta non solo più ruvida, ma anche più affascinante, singolare. Per quanto accolto abbastanza bene, quel lavoro d’esordio non permise comunque a Cobain e soci di fare il botto e d’imporsi su scala internazionale: di copie ne vennero vendute, eppure la sensazione generale era che la band dovesse ancora maturare.
Perso Chad Channing alla batteria, rimpiazzato da Dave Grohl, all’inizio del 1991 entrò nel vivo la lavorazione dell’ideale seguito di “Bleach”, pubblicato dalla Sub Pop Records. Per l’occasione il trio statunitense scelse di affidarsi all’esperienza e alla sensibilità di un gigante del calibro di Butch Vig, più volte al fianco degli Smashing Pumpkins e dei Sonic Youth come produttore. Le registrazioni filarono abbastanza bene, mentre più macchinosi furono i missaggi, alla fine però determinanti per la buona resa generale del disco.
L’accoglienza di “Nevermind” fu sorprendente per tutti, in primo luogo per la band e per i discografici della Geffen Records, che mai si sarebbero aspettati di registrare un numero di vendite così elevato (l’obiettivo iniziale era di arrivare intorno alle duecentocinquantamila copia). Trainato da Smells Like Teen Spirit, ma in ogni caso costituito da tanti altri potenziali singoli, si pensi a Come As You Are e In Bloom, l’album cominciò ad avere una quantità di richieste inimmaginabile: da un momento all’altro, divenne un vero e proprio caso.
Paragonato a “Bleach”, “Nevermind” dà ancora oggi la sensazione di essere un lavoro meno sporco e spregiudicato. Tuttavia, conserva una dirompenza notevole, perché il sound è potente e distorto, certamente incisivo. Inoltre include brani che attraverso strutture non troppo articolate arrivano subito a chi ascolta, senza però dare l’impressione di essere scontati o banali. Lo stile è intrigante, e ritenerlo emblema del grunge è doveroso: la scrittura diretta di Cobain si amalgama con estrema efficienza con i riff di chitarra elettrica, alle intense linee di basso elaborate da Krist Novoselic e ai colpi roventi di Grohl alla batteria. Le atmosfere sono vagamente cupe, però quasi tutti i pezzi in scaletta sono esplosivi.
Insomma, un’opera fluida e spontanea, non troppo ragionata e tutt’altro che ruffiana, per quanto forse meno abrasiva e acida rispetto a “Bleach”. Chi la ritiene una produzione fondamentale nell’ambito del rock di quel periodo storico, non sbaglia: “Nevermind” rimane un disco strepitoso. Indubbiamente tante altre rock band, americane e non, sono riuscite a dare vita a degli album forse anche migliori, però qui siamo di fronte a una raccolta di pezzi inediti impeccabile, in cui si scorgono talento, grinta, abilità, ispirazione e concretezza.
A ripensarci, quel settembre di trent’anni fa fu straordinario, almeno in termini di pubblicazioni di matrice rock. A fine agosto vide la luce “Ten”, grandioso esordio dei Pearl Jam, lanciato dall’irresistibile Alive. Poi, tanto per non farsi mancare nulla, il 17, una settimana prima di “Nevermind”, fu la volta di “Use Your Illusion I” dei Guns N’ Roses, magari non ai livelli di “Appetite for Destruction” ma comunque un gran bel sentire (è quello che contiene Don’t Cry e November Rain).
Infine, come se non bastasse, proprio in data 24 settembre venne rilasciato pure “Blood Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers, altro disco magistrale che, non a caso, nel giro di poche settimane avrebbe spopolato ovunque. Prodotto da Rick Rubin, quel disco rappresentò un capitolo importante nella storia del gruppo californiano: arrivato a due anni di distanza dall’ottimo “Mother’s Milk”, grazie a un discreto numero di pezzi folgoranti “Blood Sugar Sex Magik” contribuì a dare un’autentica fama mondiale a Anthony Kiedis e compagnia bella, sempre più tendenti a strizzare l’occhio al mainstream pur mantenendo originalità e qualità.
Tutti questi aspetti, tutte queste pubblicazioni avvenute nel giro di un mese, lasciano comprendere quanto straordinaria fu quella stagione, per certi versi irripetibile. Parliamo di tempi in cui il rock conservava seguito e appeal, quindi un’infinità di complessi musicali si proponevano di farlo nel modo migliore, con l’intento di mettere d’accordo pubblico e critica assecondando i propri gusti. Man mano, tuttavia, il numero delle rock band è sensibilmente diminuito, e questo è un peccato: resta sempre un genere unico in cui non è semplice distinguersi anche se, di fatto, può permettere di farsi strada e di mettere in piedi album sensazionali. Per riuscirci sono comunque necessari tanti elementi, a cominciare dalla sincerità e dalla coerenza.
Alessandro
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