Potrei passare giornate intere a sentire solo ed esclusivamente i dischi di William Fitzsimmons. La sua musica così delicata, raffinata e malinconica non riesce affatto a stancarmi. Ogni ascolto lascia puntualmente grandi emozioni, pure se certi suoi lavori li conosco alla perfezione. A mio avviso è un musicista e un cantante strepitoso, uno che non può essere ritenuto molto innovativo e sperimentale a livello creativo ma che, in ogni caso, riesce sempre a confezionare delle canzoni che sono dei gioielli autentici, esempi di eleganza innegabile perché frutto di una cura maniacale.
Ad appena quarantadue anni, questo songwriter piuttosto introspettivo e crepuscolare, dal look singolare, estremo, può vantare una discografia sublime, costellata di album sensazionali realizzati a partire dal 2005, anno in cui vide la luce “Until When We Are Ghosts”, il suo incantevole disco d’esordio. Non è senz’altro un autore dedito a spaziare molto, a osare o a sorprendere. Ma va bene così. D’altronde, dove sta scritto che si debba per forza cambiare direzione in continuo? Sono apprezzabili quei cantautori che ci provano. Eppure, almeno credo, ci sta che altri evitino di snaturare troppo il loro marchio di fabbrica, andando a forzare dove non c’è da forzare e perdendo dunque quell’autenticità che, in precedenza, gli aveva permesso di emergere e conquistare migliaia di persone.
Fitzsimmons sviluppa un tipo di musica prevalentemente acustica, dalle basi folk, quindi caratterizzata da arrangiamenti minimali, essenziali, dove la voce dialoga soprattutto con le chitarre per l’appunto acustiche, pronte a generare arpeggi morbidi, suggestivi. Capita, dando un ascolto ai suoi dischi, di notare qua e là la presenza di elementi elettrici o elettronici, distorsioni o programmazioni. In ogni caso, la maggior parte delle volte i suoi pezzi sono di matrice chitarristica. Si origina quasi sempre tutto da lì, dalla chitarra accordata nei modi più differenti per costruire melodie avvolgenti, capaci di estasiare quelle persone alla ricerca di componimenti carichi di profondità, se vogliamo struggenti.
Non saprei consigliare un album in particolare tra tutti quelli incisi fino ad oggi da Fitzsimmons, né saprei dire da quale album cominciare per riuscire a farsi un’idea chiara del suo stile. Forse, ora che ci penso, credo si possa partire proprio dal già citato “Until When We Are Ghosts” e proseguire seguendo un ordine cronologico crescente. Questo perché la sua opera risulta essere coerente e denota una crescita graduale. In “Gold in the Shadows” del 2011 si avverte un uso ricorrente, ma comunque non riuscitissimo, dell’elettronica che abbraccia troppo un pop che non sembra fare per lui, mentre nell’ultimo e interessante “Mission Bell” il sound è particolarmente pieno, robusto e contaminato.
Io, in tutta onestà, lo preferisco quando decide di vestire i panni del classico cantautore americano capace di costruire componimenti asciutti e acustici, con melodie cristalline e musiche celestiali. In tal senso, un album come “Lions” (2014) riesce a sintetizzare alla perfezione quello che intendo dire, idem “Goodnight” del 2006.
Le canzoni di Fitzsimmons fanno bene all’anima di chiunque ci incappi; infondono leggerezza pur essendo il più delle volte struggenti, un po’ amare. Con la sua musica, questo autore ricco di umanità e talento riesce a riappacificarci con il mondo, a farci guardare tutto con altri occhi. Non sono tanti quelli in grado di farlo. Con lui, di certo, si va in quella direzione. Si va in una zona fatta di armonia, di benessere. Lì dove, a conti fatti, non c’è più bisogno di nulla.
Alessandro
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