Negli ultimi quattro anni sono riuscito a vedere quasi tutti i film diretti da John Schlesinger, regista, sceneggiatore e attore inglese scomparso nel 2003. A gran parte del pubblico italiano un nome simile potrebbe dire ben poco mentre, con molta probabilità, qualche appassionato di cinema assocerà questa figura a due grandi ed acclamate pellicole come “Un uomo da marciapiede” (“Midnight Cowboy”) e “Il maratoneta” (“Marathon Man”). Non metto in dubbio, invece, che cineasti, attori e sceneggiatori nostrani lo stimino molto e che, nel tempo, abbiano contemplato con piacere la sua filmografia. Di sicuro sarebbe sbagliato limitarsi a conoscere soltanto la coppia di film sopracitati: a mio avviso, dall’inizio alla fine della propria carriera Schlesinger ha regalato al mondo intero lungometraggi di pregevole fattura. Dunque, ove possibile, sarebbe il caso di approfondire.
Non voglio mettermi ad elencare e ad analizzare tutti i lavori dello Schlesinger regista, ma non credo di esagerare nel dire che film quali “Via dalla pazza folla” (“Far from the Madding Crowd”), “Domenica, maledetta domenica” (“Sunday Bloody Sunday”) e “Il giorno della locusta” (“The Day of the Locust”) abbiano davvero poco da invidiare proprio a “Un uomo da marciapiede” e “Il maratoneta” che, in ogni caso, rimangono opere eccellenti e meritevoli di attenzione. Però, ecco, Schlensinger non finisce lì. D’altronde talento, ispirazione, maturità e sensibilità gli hanno sempre permesso di individuare e sviluppare poi con abilità dei film sontuosi. Magari il suo ultimo lungometraggio “Sai che c’è di nuovo?” (“The Next Best Thing”), confezionato nel 2000, non sarà al livello dei predecessori, tuttavia tutto ciò che l’ha preceduto è di grande, tangibile qualità.
Tra i film di Schlesinger che ho visto più di recente c’è anche “The Innocent”, consegnato alle sale di tutto il globo nell’ormai lontano 1993 (parliamo del suo terz’ultimo film nelle vesti di regista). Devo dire che mi ha molto colpito al pari di “Yankees” (“Yanks”), visto a distanza di poche ore. Per quanto all’inizio degli anni Novanta Schlesinger avesse già detto molto a livello cinematografico, con questo lavoro basato sull’omonimo lavoro di Ian McEwan il compianto autore classe 1926 diede prova di grande carisma e lucidità coordinando al meglio la realizzazione di un film comunque abbastanza complesso. Ammetto di non aver letto il libro di McEwan, eppure nella trasposizione di ventisette anni fa Schlesinger riuscì a rendere incalzante e coinvolgente la turbolenta storia tra Maria e Leonard, interpretati rispettivamente da Isabella Rossellini e Campbell Scott, inserita in un contesto pesante e instabile (sullo sfondo una Berlino surreale e occupata, in piena guerra fredda, sia da americani sia da russi).
Insomma, un film di spessore che richiede sì un po’ di concentrazione da parte dello spettatore ma che, di fatto, ha la capacità di non annoiare per via di una sceneggiatura fluida e di dialoghi opportunamente misurati. Un film che risulta essere in parte politico, in parte thriller e, non in maniera marginale, tanto sentimentale quanto drammatico. Prezioso, direi, il contributo dato dagli attori principali per la buona resa complessiva: guai a dimenticare che, oltre ai già citati Scott e Rossellini, nel cast figuri anche il grande Anthony Hopkins, bravissimo a vestire i panni del timibile Bob Glass, personaggio a cui per tutto il film sembra non sfuggire nulla. Ciò finisce sicuramente per renderlo odioso e angosciante ma, a lungo andare, ci si accorge di quanto sia indispensabile la sua presenza per aumentare il senso di suspence che aleggia in continuo e che, soprattutto nella seconda parte, raggiunge picchi abbastanza elevati.
Alessandro
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