Ho sentito nominare Kurt Vonnegut per la prima volta nel 2008. Venne citato da Franco Muzzioli, docente di Critica Letteraria e Letterature Comparate presso La Sapienza (seguivo un suo corso molto interessante e complesso di cui, tuttavia, mi sfugge il titolo esatto). Durante una delle numerose lezioni dedicate all’ampio filone della narrativa in bilico tra fantascienza e distopia, il Professore si soffermò sull’ampia produzione di Vonnegut, sottolineandone la bravura, la concretezza, la lungimiranza, l’autorevolezza.
Ricordo che tra i volumi di cui parlò a noi studenti mi colpì subito “Galápagos”, testo pubblicato dall’autore americano nel 1985. A intrigarmi ben presto fu sia la storia, piuttosto assurda e bizzarra, sia l’ambientazione, caratterizzata da quel contesto marino a me sempre molto caro. Il giorno stesso della lezione mi ripromisi di leggere il prima possibile “Galápagos” eppure, a causa della mia lentezza cronica, ho lasciato passare quasi dieci anni. Ebbene sì, perché se la memoria non m’inganna il testo in questione l’ho letto nella primavera del 2017, quindi quasi due lustri sono trascorsi.
Posso affermare di aver letto con estremo piacere e con notevole rapidità quest’opera meravigliosa di Vonnegut. Diciamo che le mie alte aspettative sono state ampiamente rispettate: “Galápagos” è come l’ho sempre immaginato, travolgente nella narrazione ed esaltante per il susseguirsi degli eventi. Ad oggi non mi sono ancora imbattuto in altre storie dello scrittore classe 1922, il che non mi consente di fare paragoni con i suoi restanti romanzi. In ogni caso, ravviso in “Galápagos” grande brillantezza in termini di stile, con momenti grotteschi capaci di generare un’ironia tanto rara quanto gradevole.
Scrivere a metà degli anni Ottanta un’opera così visionaria e proiettata verso il futuro non è da tutti. Ecco giusto uno dei molti elementi che confermano la grandezza indiscutibile di Vonnegut.
Alessandro
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