Dei Sigur Rós ho soltanto un disco originale, vale a dire “Takk…” del 2005. Lo ritengo qualcosa di incredibile, per quanto loro abbiano fatto pure di meglio (“Ágætis byrjun” e “( )” rappresentano delle autentiche pietre miliari nel genere). Conto, nel tempo, di prendermi la maggior parte dei lavori in studio che hanno confezionato a partire da “Von” del 1997. Del resto stiamo parlando di un gruppo capace di fare storia, e i motivi non devo certo spiegarli io.
Al di là del fatto di possedere o no degli album dei Sigur, in passato, grazie a prestiti o a fugaci ascolti in streaming, mi sono immerso gradualmente nel magnifico mondo sonoro costruito dal progetto capitanato da Jónsi. E devo dire che la musica prodotta da una band del genere riesce davvero a portarti altrove. Per quanto gli ultimi lavori abbiano confermato una virata netto verso linguaggi più complessi, le produzioni relative alla prima iniziale del loro percorso appaiono estremamente coerenti in termini di soluzioni sonore.
Vorrei mettere in chiaro una cosa: lo stile dell’ensemble islandese non dovrebbe essere ritenuto ridondante, prevedibile, ostico o malinconico, come mi è capitato di sentir dire più volte. Se li si ascolta bene, Jónsi e soci riescono a disegnare brani di estrema profondità sorretti da un’armonia, da un gusto davvero unici tanto a livello di scrittura quanto riguardo l’esecuzione, la resa finale.
Etichettarli come un complesso post rock mi sembra riduttivo. Parliamo di un progetto in grado di far confluire nella propria scrittura una moltitudine di influenze. Apprezzo tantissimo l’evoluzione dei Sigur. D’altronde i dischi più recenti, seppur complessi, hanno un’impronta talmente personale e affascinante da sedurre già dopo una manciata di ascolti. Solo ai grandi riescono certe trovate.
Alessandro
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