Nessuno mi toglierà mai dalla testa che la gara più decisiva, complicata, dei campionati mondiali del 2006, quella che diede una svolta al cammino dell’Italia verso il trionfo, fu quella che gli Azzurri disputarono contro l’Australia. Impossibile dimenticare. Era un caldo pomeriggio di giugno, il 26 giugno per l’esattezza. Il sole splendeva a Pescara, dove insieme agli amici di una vita mi ero organizzato per assistere al match presso il bar dello stabilimento Hai Bin (era l’estate tra il quarto e il quinto superiore, perciò ero in vacanza da parecchie settimane). Ed era una bella giornata estiva pure a Kaiserslautern, dove i ragazzi di Marcello Lippi davano ufficialmente il via al ciclo di partite a eliminazione diretta, quelle da dentro o fuori.
Fabio Cannavaro e soci arrivarono a quel match dopo aver passato brillantemente, con non poche difficoltà, un girone piuttosto impegnativo in cui figuravano Ghana, Stati Uniti e Repubblica Ceca. Superati con un secco 2-0 gli africani, i futuri campioni del Mondo impattarono contro un’America ben organizzata, capace di strappare un 1-1 contraddistinto da molto nervosismo durante i novanta minuti di gioco (da ricordare l’espulsione di Daniele De Rossi). Bellissimo il successo ai danni della Repubblica Ceca, di sicuro la compagine più temibile del gruppo, sconfitta sempre 2-0 attraverso un approccio impeccabile anche se non va dimenticata la sofferenza tangibile fin dai primi minuti di gioco: determinanti in quel caso le parate superlative di Gianluigi Buffon.
Alla vigilia della partita contro l’Australia, valida per gli ottavi di finale del torneo, la sensazione era quella che non ci sarebbe voluto poi troppo per sbarazzarsi degli avversari. Tuttavia quella squadra era molto preparata dal punto di vista tecnico e, cosa da non sottovalutare, poteva fare affidamento su uno stato di forma importante. L’Italia aveva indubbiamente una qualità complessiva superiore ma, credo, non ci fosse nello spogliatoio eccessiva autostima. E, tutto sommato, meglio così. Se non altro perché fu l’umiltà, la pazienza, a permettere agli Azzurri di tenere testa agli australiani.
Il match fu assolutamente spigoloso: ricordo momenti di tensione, con addirittura il rischio di capitolare di fronte ad un undici pronto ad offendere in caso di drastico abbassamento del baricentro. L’Italia, dal canto suo, creò occasioni. Mancava però il gol. Una rete che non arrivava perché, almeno fino a ridosso del novantesimo, la fortuna non sembrava girare dalla nostra parte. Con il passare dei minuti aumentava in me la percezione di dover fare i conti un’eliminazione possibile soprattutto in caso di lotteria ai rigori. Non che Mark Schwarzer fosse un fenomeno, però lo vedevo un po’ come uno spauracchio, uno destinato a rivelarsi il protagonista della partita ipnotizzando i nostri incaricati di presentarsi sul dischetto.
Proprio quando le cose sembravano girare per il verso sbagliato, ci venne assegnato quel rigore un po’ forzato, probabilmente regalato ma essenziale per sbloccare il risultato e ipotecare il passaggio del turno. Chi dimentica la tensione di quegli istanti? E lo sguardo concentrato di Francesco Totti immortalato dalle telecamere prima di calciare? Vogliamo parlarne? Io non ho che i brividi, soprattutto se penso a come è andata a finire. Che gioia incredibile. Ricordo davvero tutto come se fosse ieri. Si potrebbero scrivere pagine e pagine in merito a quanto accaduto da lì in avanti. Per il momento mi fermo, magari tornerò a parlarne. Però una cosa è sicura: metà del quarto titolo iridato l’Italia lo vinse a Kaiserslautern.
Alessandro
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