Come per la maggior parte dei ragazzi nati sul finire degli anni Ottanta, la PlayStation ha rappresentato qualcosa di fondamentale, d’imprescindibile, specialmente nell’età adolescenziale. Mentre alcuni amici non hanno più abbandonato il vizio di “chiudersi” con la consolle, altri, come il sottoscritto, si sono gradualmente distaccati da quel mondo. Un bel mondo, non c’è dubbio. Perché giocare ai videogiochi era un gran bel passatempo. Quando a metà anni Novanta venivano rilasciati i primi supporti e i primi giochi, l’entusiasmo era assai forte. Tutto era visto come qualcosa di magico.
Ricevetti la mia prima PlayStation nell’aprile del 1998, in occasione della prima comunione (lo so, tante prime volte in quegli anni lì). “Fifa ’98” e “Crash Bandicoot” i videogame per cominciare. Tanta roba. Pomeriggi interi davanti alla televisione. La fantasia di svegliarsi all’alba per giocare prima di andare a scuola. Follia, o forse normalità. Dipende dai punti di vista.
C’è un gioco che non posso davvero dimenticare e che, a distanza di anni, ritengo una delle più grandi invenzioni nel campo dei videogiochi. Mi riferisco a “Broken Sword: The Shadow Of The Templars”. Lo comprai usato in un negozio di via Candia. Il titolare lo consiglio a me, a mia sorella ai miei genitori. Benché io e mia sorella non lo accogliemmo con grande entusiasmo, in pochi giorni cambiammo totalmente idea. Con la sua storia intrigante, con la sua grafica inusuale ma godibile, “Broken Sword” ci prese sul serio. Forse eravamo un po’ piccoli per giocarci, nel senso che si trattava di un gioco complesso e non semplice da terminare per due bambini come noi. Non a caso impiegammo mesi per terminarlo, chiedendo soluzioni ad amici oppure sfogliando le pagine dei mensili ad hoc che si trovavano in edicola.
Agli occhi miei e a quelli di mia sorella (compagna di giochi costante) “Broken Sword” appariva come un capolavoro. Io mi sono reso conto della sua ottima reputazione solo anni dopo, quando venni a sapere del grande numero di appassionati sparsi per il mondo. George Stobbart e Nicole Collard, i due protagonisti, sono personaggi che ancora oggi ricordo con grande simpatia. Attraversare le strade parigine o quelle irlandesi, ritrovarsi nell’assolata Spagna o nell’inquietante Siria, intrufolarsi in stanze d’albergo piuttosto che in locali malfamati, era un’emozione difficile da far comprendere. La forza di “Broken Sword” era proprio quella di condurre il giocatore in luoghi stupendi, di parlare con altri personaggi bizzarri, sempre alla ricerca di soluzioni che consentissero di andare avanti per non perdere le tracce dell’assassino Khan. Che capolavoro. E poi c’era il secondo capitolo, “Broken Sword II: The Smoking Mirror”. Qui da noi fu tradotto come “La profezia dei Maya”. Magari ne riparliamo.
Alessandro
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