Nonostante i molti dischi realizzati dopo il primissimo “1999”, uscito nel 1966, i primi dieci anni di carriera di Lucio Dalla non si erano rivelati del tutto entusiasmanti. C’erano stati indubbiamente degli acuti, episodi positivi come l’approdo a Sanremo con la fortunata 4/3/1943, ma rispetto ad altri suoi colleghi dediti a sviluppare una canzone d’autore sontuosa e raffinata, basti pensare a Fabrizio De André e Francesco Guccini, ma anche Paolo Conte e Francesco De Gregori, mancavano lavori in studio degni di nota.
Nemmeno la collaborazione con Roberto Roversi gli aveva permesso di fare un salto di qualità necessario per allargare la sua platea e ottenere una popolarità di certo meritata, almeno tenendo conto del suo talento e della sua tecnica. Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili avevano messo in luce sprazzi di sperimentazione e imprevedibilità, eppure un artista come Dalla appariva a molti una sorta di oggetto misterioso: un cantautore con un buon background anche se non in grado di graffiare, di lasciare il segno.
Convinto dei propri mezzi, e conscio del fatto di dover trovare una nuova direzione artistica, dopo la pubblicazione di Automobili, avvenuta nel 1976, decise di cominciare a curare da solo la scrittura dei brani. Non più Roversi al suo fianco per trovare le parole adatte da posare sulle sue musiche: da lì in avanti si sarebbe occupato lui di quell’aspetto, una soluzione forse naturale, soprattutto per dare maggiore autenticità ai suoi pezzi.
Così, intenzionato a dare un seguito al già citato Automobili, il buon Lucio si portò tutto il necessario nella sua casa alle Isole Tremiti. L’estate del 1977 lo vide mettersi alla prova, e grazie a tanto impegno e a una buona ispirazione compose e rifinì gli otto brani destinati a finire su “Com’è profondo il mare”, dato alle stampe nella seconda parte dell’anno.
Un disco, quello, di pregevole fattura, basti pensare all’intensità, alla potenza e alla oggettiva bellezza della title-track, uno dei suoi pezzi più completi, esaltato da liriche notevoli e da una musica acustica arricchita da arrangiamenti eleganti e al tempo stesso densi, articolati. Da Il cucciolo Alfredo a Barcarola, da Corso Buenos Aires a Disperato erotico stomp: tutti brani validi, per certi versi anche moderni per l’epoca, soprattutto in termini di linguaggio.
Qualcosa era cambiato, e il pubblico se ne accorse. Grazie anche alla presenza di Alessandro Colombini in qualità di co-produttore, “Com’è profondo il mare” apparve a molte persone un lavoro di spessore, qualcosa da non lasciarsi sfuggire e da includere in una collezione di grandi dischi di musica italiana. In poco tempo andarono via tante copie, e per l’artista bolognese cominciò una nuova e radiosa fase artistica.
Lo sconcerto e lo spavento per il lancio sul palco di una bottiglia incendiaria durante un suo live al Castello Sforzesco di Milano, fatto grave e surreale avvenuto nell’estate del 1978, non riuscirono a destabilizzarlo. A livello compositivo il suo stato di grazia proseguì alla grande, e tanti italiani se ne accorsero ascoltando le nove gemme di “Lucio Dalla”, rilasciato nei primi mesi del 1979 e prodotto dal solo Alessandro Colombini (nel frattempo il grande Renzo Cremonini si era defilato per dedicarsi ad altri progetti).
Anche qui un’altra prova autoriale da brividi. Una raccolta di pezzi sensazionali, tutti ispirati, concreti nelle musiche e ammalianti in termini di testi, chiaro segno di una crescente consapevolezza nei propri mezzi. Circa cinquecentomila copie vendute nell’arco di sei mesi: un successo impressionante, ben oltre le più rosee aspettative.
Nessun apparente punto debole rispetto al precedente “Com’è profondo il mare”, comunque da considerare un gioiello della musica di quel periodo: “Lucio Dalla” apparve fin da subito un album iconico, fatto di tracce irresistibili e quindi privo di cali, e di episodi evanescenti. Dalla canzone di apertura L’ultima luna, travolgente nel ritmo e nella melodia, alla conclusiva e impeccabile L’anno che verrà: un continuo susseguirsi di poesia e di imprevedibilità, di genialità e di talento.
Sulla scia di un entusiasmo contagioso per la sua musica lucente e pura, nell’estate di quell’anno Dalla partì in tour con l’amico e collega Francesco De Gregori, pochi mesi prima coinvolto nella scrittura e nell’incisione di Ma come fanno i marinai: un’esperienza unica quella di “Banana Republic”, fatta di decine di concerti all’aperto nei mesi più caldi dell’anno con spalti stracolmi e gente in delirio, estasiata da scalette uniche e da un’alchimia magica, frutto di un’intesa perfetta tra il bolognese e il romano.
Per nulla appagato dall’exploit avuto con l’album “Lucio Dalla” e con il tour insieme al Principe, Dalla si chiuse un’altra volta in studio per completare la lavorazione di “Dalla”, pubblicato nel settembre del 1980. Un’opera anch’essa magica, venuta fuori in seguito a una sicurezza crescente a una maturità tangibile.
Forse appena “inferiore” – se così si può dire – al suo predecessore capace di consacrarlo, “Dalla” ebbe comunque la sua visibilità, garantendo ottime vendite tanto da contribuire a lanciare l’artista nell’olimpo dei grandi cantautori italiani. Tra pezzi più spigliati e altri invece maggiormente intimisti, il funambolo emiliano guadagnò ulteriori consensi, lasciando a bocca aperta chi si ritrovò ad ascoltare per la prima volta Balla balla ballerino, La sera dei miracoli, Cara e Futura.
Una fase artistica formidabile, probabilmente la più importante della sua carriera, che gli avrebbe comunque riservato ancora tante soddisfazioni negli anni a venire. Tre dischi a cui milioni di persone si sono legate in maniera indissolubile e che, con le canzoni al loro interno, hanno contribuito ad accompagnare l’atmosfera di grande fermento artistico di quegli anni irripetibili.
Alessandro
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