Negli anni Settanta, dal punto di vista culturale, Napoli era una città vivissima. C’era, tra i giovani partenopei, il desiderio di voltare pagina, di contribuire a far compiere a un posto simile un importante cambio di passo.
Si respirava un’aria frizzante. C’era fermento, c’era un’atmosfera non comune, capace di fornire molta ispirazione a chi aveva come obiettivo quello di creare. Tutto ciò non solo a livello musicale, ma anche dal punto di vista teatrale, letterario, cinematografico e pittorico.
Proprio in quel periodo, nella metà di quel decennio, un giovanissimo chitarrista con un talento unico cercava di farsi strada, di trovare la propria dimensione e, soprattutto, di vivere di musica. Un certo Giuseppe Daniele, per tutti Pino. O Pinotto, perché la stazza era notevole e gli occhiali a fondo di bottiglia sopra il naso lo rendevano dolce, adorabile e buffo al tempo stesso.
Già da qualche anno era abbastanza conosciuto nell’ambiente, soprattutto per la sua militanza nei Batracomiomachia, un gruppo rock assai sperimentale con cui aveva inciso dei brani e tenuto parecchi concerti, non solo nella propria regione. Prima ancora, praticamente un ragazzino, matrimoni, feste private: situazioni di vario genere per tirare su qualche soldo e tentare di emanciparsi, di migliorare la propria condizione sociale.
Grande conoscenza dello strumento, predilezione per il blues e il jazz rock, una tecnica sorprendente e una fame di musica indescrivibile, con Elvis Presley indispensabile, un autentico faro: non uno come gli altri questo Pino, un prodigio da non perdere di vista. Insomma, chiunque ci aveva in qualche modo collaborato ne aveva riconosciuto carisma, preparazione, competenza e professionalità.
L’obiettivo del ragazzo era di suonare, di imporsi per l’appunto come chitarrista. Seguire le orme di un Carlos Santana o di un Pat Metheny, per intenderci. Ma in Italia, anche all’epoca, per avere successo e avviare una carriera gloriosa non si poteva prescindere dalle canzoni. E a lui, grazie a una sensibilità innata, subito dopo la fine dei Batracomiomachia qualcosa di valido era uscito. Componimenti dirompenti, contraddistinti da un linguaggio forte, reso ancora più diretto e suggestivo dall’uso sapiente del dialetto napoletano, già di suo pieno di musicalità.
Con il buon Rosario Jermano, caro amico nonché valido percussionista e abbastanza pratico con registrazioni audio non troppo articolate, aveva inciso dei provini essenziali: chitarra acustica e poco altro, giusto per dare un minimo di colore a brani assolutamente scarni, a livello sonoro ridotti praticamente all’osso. Quel materiale, incluso in una cassettina copiata per gli addetti ai lavori, finì nelle mani di un certo Claudio Poggi, concittadino di Pino e tanto appassionato di musica al punto tale da scriverne per alcune riviste specializzate.
Il ragazzo rimase folgorato dalla qualità dei brani ascoltati: chi le aveva scritte e suonate non era un comune cantautore alle prime armi, ma uno che sapeva il fatto suo, che aveva gusto, che era incredibilmente maturo, che aveva una marcia in più e che, di fatto, apparteneva a un’altra categoria. Così, intenzionato a fare qualcosa per aiutare ‘sto Pino, il buon Poggi riuscì a vedere di persona l’allora direttore artistico della EMI, ovvero Bruno Tibaldi.
Non fu affatto un gioco da ragazzi, ma Tibaldi si convinse ad approfondire, convocando a Roma l’autore e l’interprete delle canzoni che Poggi, con una passione e un’insistenza smisurate, gli aveva fatto sentire con attenzione. Un passaggio fondamentale, anche perché Pino, in quella fase della sua vita, si stava guardando altrove poiché dubbioso rispetto all’eventualità di riuscire a “sfondare” e di diventare quindi un musicista professionista. E invece Tibaldi stanziò un piccolo budget per fare delle registrazioni migliori, facendo tornare la musica al primo posto.
Dunque, da un momento all’altro, l’intera macchina si mise in moto, con lo stesso Poggi incaricato di supervisionare tutto in qualità di produttore esecutivo. Pino, dal canto suo, si dedicò agli arrangiamenti dei brani già facenti parte del suo repertorio, continuando comunque a comporre per avere un ampio numero di brani tra cui scegliere. Una scelta, questa, indubbiamente saggia, perché successivamente al contratto firmato con Tibaldi Pino stesso sfornò un capolavoro assoluto del calibro di Napule è, destinato a diventare il suo brano più rappresentativo ed eterno.
Seguirono perciò mesi importanti, pieni di incertezze così come di scelte delicate, non semplici. Mesi trascorsi soprattutto a Roma, a registrare allo Studio Quattro Uno in via Nomentana quasi in contemporanea con Claudio Baglioni, in quel periodo al lavoro sull’album “Solo”, e destinati comunque a far crescere questo ventenne pieno di idee, a fargli comprendere determinati aspetti, determinate dinamiche della discografia.
Prima un quarantacinque giri, con all’interno appena due brani, per farsi conoscere; dopodiché concerti e apparizioni in televisione con l’intento di promuovere la sua primissima pubblicazione e attirare l’attenzione del pubblico: tutti step necessari e inevitabili, forse snervanti eppure decisivi, fondamentali.
Alla fine entrò nel vivo la lavorazione dell’album d’esordio di Pino, piuttosto macchinosa e andata avanti in maniera non proprio regolare od omogenea. Napule è venne inserita quando tutto era in dirittura d’arrivo, e con essa un altro paio di gioielli: roba che non poteva rimanere fuori, e che avrebbe cambiato in maniera netta la linea del disco.
Il 1977 segnò il debutto sulle scene di questo autentico prodigio, questo Pino Daniele pronto a scrivere di storie assurde, spesso e volentieri legate alle strade e ai vicoli di Napoli, sintetizzate in pochi versi di canzone. Un lavoro, quell’indimenticabile “Terra mia”, forse leggermente acerbo, eppure capace di far scorgere degli slanci di genialità davvero rari, nonché formidabili.
Da ‘Na tazzulella ‘e cafè a Saglie, saglie, dalla stessa Terra mia a Cammina cammina: tante le perle tra i ben tredici brani inclusi nel lavoro, qualcosa di assolutamente nuovo in quel periodo, segnato dal terremoto provocato dall’irruzione improvvisa sulla scena del punk. Parte della critica del tempo si rese conto della stoffa di questo giovane artista, desideroso di cominciare a suonare dal vivo con costanza per girare l’Italia in un lungo e in largo e per dimostrare al pubblico tutto il suo bisogno di stare su un palco, luogo cruciale e indispensabile, fonte di vita vera, di sudore e brividi.
Le copie vendute non furono tantissime, e ciò dipese da diversi fattori. Ma il pubblico, quello sì, pose grande attenzione alla sua proposta artistica. Prese così il via una lenta ma graduale – e straripante – ascesa, sublimata dal successivo “Pino Daniele” del 1979, decisamente più esplosivo, energico, spigliato. Ma senza “Terra mia”, senza la poesia di quel lavoro così autentico, la carriera di Pino non sarebbe decollata tanto rapidamente.
Alessandro
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