Sono passati ben dodici anni dalla sua uscita, eppure il quarto album in studio del cantautore americano Amos Lee, intitolato “Mission Bell”, mi commuove ancora per la sua bellezza devastante. Lui, come già scritto da queste parti in passato, è un autore per il quale vado matto, perché capace di scrivere brani strepitosi, ispirati ed estremamente raffinati inclusi in dischi magistrali. “Mission Bell”, tuttavia, ha qualcosa in più rispetto ai lavori precedenti e a quelli successivi.
Dopo i primi due album molto influenzati dal jazz e dal soul, vale a dire “Amos Lee” del 2005 e “Supply and Demand” del 2006, con il successivo “Last Days at the Lodge” Amos cercò nuove soluzioni sonore, affidandosi al produttore Don Was per dare vita a un disco in parte acustico e in parte rock, con leggere sfumature blues. L’esperimento non fu male, eppure si notò un piccolo passo indietro per qualità e maturità.
Effettivamente, per quanto curato e orecchiabile, “Last Days at the Lodge” non si può considerare un capolavoro all’interno della discografia di questo valido artista classe 1977. Probabilmente, all’epoca della sua pubblicazione, Amos capì di dover rivedere alcune cose.
Quando tre anni dopo venne dato alle stampe “Mission Bell”, prodotto dal grande Joey Burns dei Calexico, fu evidente un netto cambio di marcia. Meno pulizia e attenzione per il pop, con una chiara necessità di andare oltre e aspirare a una libertà artistica sacrosanta, destinata a portarlo verso territori affascinanti quali il folk rock e il country.
“Mission Bell” sembra proprio essere sorretto da questi due generi, in cui l’artefice appare decisamente a suo agio. Ecco allora una raccolta di pezzi magnifici, con grandi testi e musiche sontuose, con tante chitarre acustiche in primo piano pronte, tuttavia, a dialogare con molti altri strumenti. Nel disco ci sono archi, fiati, lap steel, chitarre elettriche e non solo: un meraviglioso mix di elementi in grado di illuminare alcuni scorci delle radici musicali dell’artista.
È un disco molto americano “Mission Bell”, grintoso e delicato al tempo stesso. Il cantato soul di Amos si intreccia alla perfezione con la tradizione cantautorale degli Stati Uniti, e il risultato è splendido dall’inizio alla fine, poiché non si avvertono episodi mediocri durante l’ascolto.
Tra l’altro, cosa da non sottovalutare, il disco si avvale di tante e interessanti collaborazioni. A me colpisce ancora la presenza di Sam Beam, noto anche come Iron & Wine, nel brano Violin, però è decisamente singolare il fatto che nell’album si possano scorgere anche le voci di gente del calibro di Pieta Brown, di Lucinda Williams e del mitico Willie Nelson.
Se ancora oggi vado a ricercarlo tra i dischi in casa per metterlo nello stereo, un motivo ci sarà. Del resto, “Mission Bell” uscì all’inizio di un anno per me molto bello, ovvero il 2011. Riascoltandolo mi tornano in mente tanti momenti felici, e questo non posso negarlo.
Alessandro
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