Sento continuamente l’esigenza di ascoltare i lavori firmati dal mitico Ray LaMontagne, cantautore americano in attività dall’inizio del nuovo millennio e capace, in oltre quindici anni di carriera, di sfornare dischi straordinari: le sue qualità sono sorprendenti, ed è difficile trovare colleghi o progetti musicali più validi di lui, almeno nel filone folk attuale. Questa volta scelgo di spendere qualche parola per un suo album davvero affascinante e ispirato, almeno per me. Il disco in questione s’intitola “God Willin’ & the Creek Don’t Rise” e risale al 2010 (se non ricordo male, venne pubblicato nell’agosto di quell’anno).
Si tratta del suo quarto lavoro in studio, ideale seguito di “Gossip in the Grain” del 2008, altra grande produzione. Per questo disco, al cui interno si trovano dieci canzoni originali, LaMontagne decise di curare interamente la produzione, e questo rappresentò una novità non indifferente per lui che, prima di allora, si trovò puntualmente a collaborare con un genio del calibro di Ethan Johns, abile a dare risalto a certi dischi di Paul McCartney, Tom Jones e Rufus Wainwright. Inoltre, particolare di non poco conto, per la registrazione dei pezzi inclusi in scaletta il cantautore statunitense coinvolse un gruppo di ottimi musicisti, complesso ribattezzato Pariah Dogs.
Perché è un lavoro straordinario “God Willin’ & the Creek Don’t Rise”? Perché dedicarvi un post sul blog? Perché i brani che lo costituiscono sono di una qualità strepitosa, scritti con un’abilità sbalorditiva e poi arrangiati in modo magnifico, sapiente. È, a mio avviso, un album con tante sfaccettature, dove si alternano brani graffiati ed energici (su tutti Repo Man, Beg Steal or Borrow e Devil’s in the Jukebox), ed altri invece più dolci, emozionanti, commoventi. In questo caso penso ad esempio a New York City’s Killing Me, Are We Really Trough, For the Summer e Like Rock and Roll Radio.
Più si ascolta questo disco, più si viene rapiti dal suo spessore, che è garantito da sontuosi arpeggi di chitarra acustica e da sublimi fraseggi di chitarra elettrica, nonché da altri elementi sonori frutto di indubbia ricerca. Poi ci sono i testi profondi e poetici dell’artista e la sua voce ammaliante, qualcosa di unico: dall’inizio alla fine dell’album LaMontagne la utilizza con un talento pazzesco, sfruttandola a dovere per non snaturare le caratteristiche dei singoli brani, andando piuttosto ad esaltarle.
Non mi sento di dire che “God Willin’ & the Creek Don’t Rise” sia in assoluto il miglior album mai realizzato da questa forza della natura, nata a Nashua, nel New Hampshire, nel 1973. Probabilmente “Trouble” del 2004 resta insuperabile, così come il successivo “Til the Sun Turns Black”. Però, al di là di tutto, in questo caso ci sono dieci brani formidabili, capaci di rapire anche l’ascoltatore meno attento e di entrare nel cuore di centinaia di migliaia di fan sparsi nel mondo. Definirlo un album sontuoso mi sembra anche poco: in quasi quarantacinque minuti di musica si resta allibiti per tutta la meraviglia che travolge nel vero senso della parola.
Alessandro
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