I Led Zeppelin sono nel cuore, ci mancherebbe. Mi sono ripromesso da tempo di scrivere tanto a proposito di loro su questo blog. Per via della grande ammirazione di mio padre nei loro confronti, posso dire di essere cresciuto con i loro dischi: ricordo di aver cominciato a imbattermi in loro diverse hit già da piccolo. Poi, pian piano, ho saputo ascoltare, capire, apprezzare e adorare i loro dischi magistrali, almeno quelli rilasciati fino alla metà degli anni Settanta.
Per quanto Heartbreaker, Whole Lotta Love, Immigrant Song, Black Dog e Starway to Heaven siano dei capolavori assoluti, dei pezzi magnifici e immortali, sono da sempre particolarmente legato a un brano del loro repertorio. Un brano indubbiamente un po’ particolare, quasi atipico per certi versi. Parlo di D’yer Mak’er, canzone contenuta in “Houses of the Holy” del 1973.
Bisogna subito dire che non si tratta di un brano molto popolare, tantomeno così gettonato dai fan di Robert Plant e soci. Senza girarci intorno, la maggior parte degli ammiratori più accaniti della celebre band inglese tende a storcere il naso nel sentirla. E forse ci sta, perché di fatto è una canzone poco rock e poco spregiudicata, potente. Nulla a che vedere con quei brani pieni di ritmo ed energia, di riff e soli di chitarra travolgenti, che hanno permesso ai Led di diventare uno dei complessi più amati di sempre in tutto il globo.
Per quanto mi riguarda, rimane tuttavia un brano gradevole, delizioso, suggestivo. Ancora oggi, nel sentirlo, ci trovo degli elementi melodici e musicali interessanti, certamente sorprendenti per il marchio di fabbrica della band. Mi sembra inoltre piuttosto ispirato, armonioso, solare, incalzante.
Con D’yer Mak’er fu un’autentica folgorazione. Non ricordo bene quando lo ascoltai la prima volta, ma posso tranquillamente affermare di essere stato un bimbo. Con molta probabilità, mio padre lo fece ascoltare a me e a mia sorella in macchina, in un qualche lontano pomeriggio degli anni Novanta.
Essendo entrambi piuttosto piccoli, e forse non ancora pronti per certi componimenti rock abbastanza tirati e roboanti, con grande sensibilità decise di farci conoscere la musica di Jimmy Page e compagnia bella partendo da una traccia più dolce e orecchiabile rispetto alle altre. E così, in breve tempo, quel sound ricco e pieno di colori, e quella melodia speciale, finirono per entrarci in testa. Quindi, di volta in volta, quando eravamo in auto per andare in giro per Roma, e mio padre decideva di portare con sé la musicassetta di “Houses of the Holy”, era pressoché immancabile l’ascolto di una canzone simile.
L’interpretazione vocale di Plant e il resto del lavoro svolto egregiamente dagli altri tre membri del gruppo, rendono D’yer Mak’er un gioiello, magari non irresistibile come You Shook Me o Thank You, ma comunque valido e coinvolgente.
Risentendolo, mi tornano in mente alcuni flash del passato, immagini dell’infanzia vissuta con la giusta spensieratezza e invasa da grande musica, senza eccessiva distinzione di generi. Tra i suoi tanti poteri, la musica conserva anche questo e, a pensarci bene, ciò è semplicemente straordinario. Un pezzo che, a mio avviso, tanti farebbero bene a rivalutare.
Alessandro
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