Pochi giorni fa sono passato alla Discoteca Laziale, uno dei negozi di dischi di Roma a cui sono maggiormente affezionato e dove mi reco con frequenza, per ritirare una piccola pila di album ordinati in precedenza. Tra i cd acquistati, ben tre erano firmati da Sufjan Stevens, cantautore americano che stimo tantissimo e che seguo ormai con costanza da circa dieci anni, forse qualcosa di più.
Qui in Italia non è molto conosciuto, ma negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi del mondo è piuttosto popolare, per quanto la sua musica sia, in certi frangenti, abbastanza articolata, sperimentale. Di lui, in realtà, ho già scritto qualcosa su questo blog anni addietro. Nello specifico, gli dedicai un post per riflettere sul suo disco “Carrie & Lowell”, rilasciato nel marzo del 2015. Un lavoro, quello, straordinario, arrivato a circa cinque anni di distanza dal precedente “The Age of Adz”.
“Carrie & Lowell” lo posseggo da tempo, quindi quel titolo non era presente nell’ultimo blitz effettuato alla Discoteca. Questa volta sono riuscito invece ad accaparrarmi “Michigan”, “Seven Swans” e lo stesso “The Age of Adz”, album singolare perché stracolmo di elettronica e caratterizzato da una scaletta costituita da brani davvero sorprendenti, curiosi. “Michigan” e “Seven Swans”, invece, sono più datati perché dati alle stampe rispettivamente nel 2003 e nel 2004, quindi fanno parte della fase iniziale della sua carriera musicale.
Davvero difficile riuscire a sintetizzare in poche righe cosa Stevens sia riuscito a fare in circa venti anni di carriera. Sicuramente si può dire che, all’inizio del Duemila, questo talentuoso polistrumentista, nato a Detroit nel 1975, abbia cercato di farsi largo e di mettersi in mostra sfornando dischi di matrice folk, quindi prevalentemente acustici anche se non così minimali e scarni come si possa immaginare, bensì ricchi di elementi e di strumenti figli della tradizione musicale americana.
Poi, con il passare del tempo, Stevens ha iniziato a contaminare sempre di più le sue canzoni, inserendo ad esempio elementi classici o sinfonici, soprattutto per vestire a dovere album complessi quali il già citato “Michigan” e “Illinois”, quasi dei concept dedicati ai due Stati americani (in teoria quelli furono i primi capitoli di un progetto ambizioso tramite cui raccontare, a modo proprio, la natura di altri Paesi degli States).
La sua è stata una crescita sensazionale, senza dubbio. Lo testimoniano le tante collaborazioni realizzate insieme a colleghi o band, oppure la realizzazione di tracce per colonne sonore. In quanto alla sua discografia, proprio quel “The Age of Adz” di cui sopra è stato forse il primo album fortemente intriso di un’elettronica che, di lì in avanti, non è stata più abbandonata, semmai dosata con più cura (si pensi a “Carrie & Lowell”, più vicino all’acustico ma non per questo privo di elementi sonori moderni).
Per conoscere a fondo questo vero genio ci vuole tempo. Servono ascolti ripetuti di tanti e differenti dischi. Però, posso tranquillamente affermare che con uno come Stevens non ci si annoia affatto. Anche i suoi dischi più difficili da assimilare hanno una capacità quasi inspiegabile di catturare l’attenzione e di portare alla riflessione per certe scelte che non riguardano solo la musica e gli arrangiamenti, ma anche l’utilizzo della voce e la scrittura dei testi, dove ricorrono spesso temi quali la fede, la famiglia o le storie di tutti i giorni.
Un artista atipico, unico. Per quanto mi riguarda, spero tanto di riuscire in futuro a vederlo dal vivo. Credo che i suoi live siano a dir poco strepitosi e coinvolgenti.
Alessandro
Leave a Reply