Sono rimasto letteralmente estasiato, appena un paio di mesi fa, nel vedere “Paris, Texas” di Wim Wenders, lungometraggio firmato dal grande cineasta tedesco che raggiunse le sale di tutto il mondo nel corso del 1984. Da tempo volevo visionare un film del genere, vincitore della Palma d’oro a Cannes, di cui tanti mi avevano parlato bene e di cui avevo letto articoli, saggi e recensioni molto interessanti. Seppur con un grave ritardo, sono riuscito a rimediare e non posso che ritenermi soddisfatto.
Caratterizzato da una trama perfetta, da un cast notevole, da una fotografia ottima e da location e inquadrature pregevoli, questo lavoro di Wenders resta uno dei più conosciuti e amati all’interno della sua filmografia. E in effetti, guardandolo, si comprende appieno il motivo: stiamo parlando di un film di spessore, di un’opera curata e suggestiva, che tocca tanti temi interessanti.
Devo dire di aver apprezzato particolarmente il ruolo interpretato dal grande Harry Dean Stanton, un super attore, scomparso da pochi anni, del quale forse non si è mai parlato abbastanza. Il personaggio che va ad interpretare nella pellicola, ovvero Travis, un uomo che fin dall’inizio dimostra di aver smarrito la bussola e di essere sparito dalla circolazione per un motivo importante, è decisamente curioso e misterioso. A mio avviso, in questo film dimostra benissimo tutto il suo talento, tutta la sua professionalità.
Poi, ovviamente, bisognerebbe dedicare un post apposito per la favolosa colonna sonora curata da Ry Cooder, frutto di molta improvvisazione: in più occasioni Wenders ha raccontato che, durante la lavorazione di “Paris, Texas”, il mitico musicista si posizionasse davanti allo schermo, imbracciando la chitarra, per tirare giù dei fraseggi dal piglio blues mentre scorrevano le immagini. Il suo tocco così incantevole riesce a trasmettere il taglio in parte psichedelico, e in parte drammatico, del lungometraggio.
Essendo un appassionato di road movie, mi sono emozionato tanto nel contemplare tutte quelle sequenze girate lungo le celebri strade che attraversano gli sconfinati paesaggi del sud degli Stati Uniti. Bellissimi quei dialoghi in macchina tra Travis e suo fratello Walt (Dean Stockwell) e tra lo stesso Travis e suo figlio Hunter. Per non parlare inoltre di quelle inquadrature mozzafiato, ideate da Wenders e dai suoi collaboratori, per esaltare la bellezza di orizzonti assolati così come di una Los Angeles sempre attraente e ripresa dall’alto.
Solo vedendo “Paris, Texas” si riesce a comprendere la magia che lo contraddistingue. Onestamente, a parole, tramite la tastiera del mio computer, non riesco ad aggiungere altro. Diciamo che non riesco a trasmettere quello che il film è stato in grado di lasciarmi.
In più, va detto che l’opera in questione rappresenta un momento importante nel percorso artistico di Wenders: mai, prima di allora, si erano viste sue pellicole con uno stile simile. Indubbiamente balza all’occhio il marchio di fabbrica del cinema americano del tempo. C’è un distacco dal carattere intimista delle produzioni europee precedenti. Tutto fantastico.
Alessandro
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