John Mayer

Concordo, come molti, sul fatto che John Mayer potrebbe fare molto di più, che per quelle che sono le sue qualità potrebbe scrivere dei pezzi maggiormente incisivi a livello musicale e testuale, sfornando quindi dei dischi di spessore, maturi. In ogni caso, anche se all’interno della sua discografia sono presenti episodi convincenti solo in parte, ritengo che sia un grande artista, uno da ascoltare comunque con attenzione.
Attivo dall’inizio del nuovo millennio, questo songwriter e chitarrista americano incide dischi dal 2001, quindi è in pista da circa un ventennio. Ha alle spalle collaborazioni notevoli, nonché centinaia di concerti. Parliamo di uno che dal vivo e in studio ha potuto contare a lungo su una sezione ritmica incredibile, costituita dal batterista Steve Jordan e dal bassista Pino Palladino. Inoltre, come se non bastasse, si è ritrovato più volte al fianco di Eric Clapton e, tempo addietro, si è potuto avvalere di gente del calibro di David Crosby e Graham Nash per arrangiare a dovere una manciata di pezzi.
Insomma, non sei proprio uno scarso se lavori con artisti simili. Poi, ovviamente, potremmo parlare del fatto che canzoni come Your Body Is a Wonderland o Who You Love – cantata in duetto con l’ex compagna Katy Perry – siano componimenti eccessivamente elementari, non all’altezza delle sue capacità. Però, che stia bene o no, John Mayer è questo. È uno che ha un senso del ritmo pazzesco, che ha il blues e il funk nel sangue e che dispone di una versatilità chitarristica invidiabile ma che, nonostante tutto, tende con molta frequenza a virare sul pop.
Non so spiegarmi effettivamente questa sua ostinazione a confezionare così tante canzoni leggere e immediate. Da anni rifletto su questo aspetto e, alla fine, sono arrivato a pensare che, in fin dei conti, a lui piaccia, venga naturale produrre brani orecchiabili e semplici. Non voglio pensare che lo faccia esclusivamente per vendere più dischi. D’altronde, diciamoci la verità, non è solo strizzando l’occhio ai suoni contemporanei che si possono convincere decine di migliaia di persone a entrare in un negozio di dischi per accaparrarsi un lavoro al cui interno si trovino “canzoncine” ammiccanti e artefatte, o comunque tracce banali.
Non ci si può fare nulla: il signor Mayer ha questo istinto che lo porta, almeno in studio, ad inseguire melodie semplici. Chissà, forse un giorno evolverà e inizierà a dare alle stampe album grintosi e maturi, graffianti e folgoranti. Ma, almeno per un altro po’ di anni, prevedo lavori sulla falsariga di “The Search for Everything”, ad oggi il suo ultimo disco risalente al 2017. Che poi, a dirla tutta, “The Search for Everything” non è neppure male, perché tutti i pezzi in scaletta sono prodotti con astuzia e sensibilità e il disco, dopo una lunga serie di ascolti, finisce per entrare in testa e per piacere.
Così su due piedi, mi viene da dire che il mio album preferito di Mayer sia “Born and Raised” del 2012, molto raffinato e curato e caratterizzato da uno stile vicino al folk rock e al country. Eppure, se uno va a vedere, a consacrarlo sono stati album di evidente matrice pop rock come “Room for Squares” (primo lavoro in assoluto), “Heavier Things” e “Continuum”. Ecco, parliamo di dischi intrisi di pezzi solari, orecchiabili e contaminati. E sono i dischi che, a quanto pare, hanno venduto di più, quelli che sono andati meglio.
Per quel che mi riguarda, in questi tre dischi ci sono pezzi eccellenti e, seppur arrangiati con l’intento di assomigliare a roba ideale per radio e tv commerciali, sembrano funzionare anche a distanza di anni dal loro concepimento.
Un po’ di leggerezza non guasta mai e, in fin dei conti, l’artista in questione ha davanti ancora parecchio tempo per rendere più autentica, incalzante, la sua scrittura. Un domani qualcosa cambierà, me lo sento.

Alessandro

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