Appena prima di cominciare a scrivere questo breve post sui National, mi è venuto in mente che quest’anno la grande band americana festeggia i suoi primi vent’anni di attività. In realtà i cinque formidabili componenti, originari dell’Ohio, suonano dal 1999, quindi il traguardo dei vent’anni può dirsi ampiamente superato. Tuttavia, nel 2001, perciò due decenni or sono, usciva “The National”, il loro album d’esordio, tra l’altro ristampato di recente. Un lavoro magistrale, quello. Un disco con dodici tracce tra cui spiccano le bellissime Beautiful Head, American Mary e Anna Freud, alcuni dei pezzi più amati dai fan di vecchia data.
Ne hanno fatta di strada i National dal 2001. Hanno rilasciato dei dischi sublimi, tra cui “Alligator” nel 2005 e “Boxer” nel 2007, hanno tenuto un’infinità di concerti in giro per il mondo, ottenuto premi e riconoscimenti di vario tipo, sostenuto la campagna elettorale di Barack Obama. Diciamo che sono cresciuti in maniera progressiva ottenendo una popolarità notevole ma, soprattutto, meritata. E la cosa bella, quella che fa comprendere lo spessore di Matt Berninger e soci, è che un gruppo simile sia andato avanti senza mai scendere a compromessi, producendo piuttosto una musica di enorme qualità. Una musica elegante, raffinata, profonda, giocata su un equilibrio perfetto tra parti di piano e parti di chitarra.
Per chi non li conoscesse, questi ragazzi sono dediti a confezionare delle canzoni capaci di contenere il più delle volte elementi rock al loro interno. Non è mai un rock dirompente, nemmeno acido o psichedelico. È, semmai, un rock molto articolato, dolce, soft, ragionato, dove non vengono cercati esclusivamente riff o soli di chitarra esplosivi. Aaron e Bryce Dessner e Bryan e Scott Devendorf cercano da sempre di mettere in piedi un suono corposo in grado di non coprire in modo eccessivo la voce intensa di Berninger, cantante dalle indubbie qualità che qualche mese fa ha pubblicato un bellissimo primo disco solista intitolato “Serpentine Prison” (invito chiunque stia leggendo queste poche righe ad approfondire perché merita sul serio).
Bellissimi, ovviamente, i brani più lenti, riflessivi e in qualche modo acustici dei National: quando scelgono di arrangiare un brano che non sia troppo rapido e ritmato, regalano brividi incredibili. Insomma, al di là dei gusti, è indubbia la loro bravura, la loro sensibilità. Siamo davanti a gente che sa suonare benissimo, e sono contento che, col tempo, anche in Italia ci si sia accorti del talento del quintetto statunitense.
Nei giorni scorsi, pensando allo spazio che gli avrei regalato qui, mi sono ricordato di aver visto dal vivo i National. Se non vado errato, era il 2014. Si esibivano a Roma, all’Auditorium Parco della Musica. Da circa un anno era fuori il delizioso “Trouble Will Find Me”. Una mia cara amica, l’attrice ternana Luisa Borini, mi invitò ad andare con lei per il semplice fatto che, quasi all’ultimo, saltò fuori un biglietto in più. Mi torna in mente un live impeccabile, di grande impatto, con una scaletta niente male e il pubblico decisamente soddisfatto. Vedendoli sul palco compresi ulteriormente la loro caratura.
Alessandro
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