A parte la fase iniziale della sua carriera professionistica alla Roma, dal 1991 al 2007 ha vestito le maglie di tre squadre per le quali non ho mai provato simpatia, ovvero Juventus, Inter e Lazio. Al di là di questo, fin da bambino Angelo Peruzzi è stato uno dei miei portieri preferiti, capace di farmi sognare e di darmi la convinzione che potessi farmi valere anch’io indossando i guantoni su un campo in terra battuta.
Ben presto mi incuriosì il suo fisico quasi atipico per uno che deve giocare tra i pali, quello di un portiere non altissimo (appena un metro e ottanta) e, soprattutto, molto piazzato, forse anche troppo visto il suo peso spesso vicino ai novanta chilogrammi. Nonostante ciò, già da giovane Peruzzi dimostrò di possedere doti fondamentali per diventare un autentico numero uno: il senso della posizione, la sicurezza, la reattività, l’esplosività e la destrezza nel giocare con i piedi.
Oltre a questo, il talento di Blera, Comune situato in provincia di Viterbo, ha sempre mantenuto un’elasticità e un’eleganza formidabili. Ecco, tutte queste caratteristiche sono state puntualmente notate, studiate ed apprezzate dal sottoscritto, pronto a “rubare” da lui il più possibile per poi cercare di imitarlo in allenamento così come in partita.
Vedere all’opera Peruzzi era un piacere. Quando mi capitava di assistere a un match in televisione in cui tra i ventidue sul manto erboso figurava pure lui, speravo che le telecamere si focalizzassero a lungo su quello che reputo ancora oggi un fuoriclasse.
Quando militavo nel Monte Mario, società sportiva romana scomparsa nei primi anni del Duemila, durante gli allenamenti insieme agli altri portieri più grandi e più piccoli si parlava spesso di Peruzzi. Il nostro preparatore, l’indimenticabile Igor Jankole, che spero un giorno di poter riabbracciare, era un suo estimatore, dunque gli capitava di spendere parole significative per le sue qualità.
Ricordo tanti lunedì pomeriggio trascorsi a riflettere su quanto fatto nel weekend da quel grande campione. Erano belle chiacchierate perché magari uno di noi poneva attenzione su una parata in particolare effettuata da Peruzzi stesso, mentre il nostro allenatore ci faceva notare un altro aspetto tutt’altro che secondario che, di fatto, ci era sfuggito e che aveva sempre a che fare con lui.
Proprio Jankole ripeteva spesso la solita frase: «Ci sono due categorie di portieri, i portieri e Peruzzi». Un’analisi assolutamente vera, da me sempre condivisa. Peruzzi era davvero unico, aveva un modo di intervenire tutto suo. Per questo dico che vederlo giocare era splendido e costruttivo al tempo stesso.
Mi spiace solo che, a causa di un fisico per l’appunto non stereotipato e di una muscolatura notevole, quasi ingombrante, abbia riportato tanti infortuni nel corso della sua carriera: nell’arco di un’intera stagione, Peruzzi poteva stare fuori complessivamente anche per tre mesi. Ci voleva sempre un secondo portiere valido, pronto a prendere il suo posto in caso di stop improvviso.
Nel 1998, a ridosso dei Mondiali da disputare in Francia, “Cinghialone”, che nei piani di Cesare Maldini sarebbe dovuto partire titolare, diede forfait sempre per via di un acciacco fisico. Per quanto poi Gianluca Pagliuca non lo fece rimpiangere affatto, penso ancora oggi che sarebbe stato esaltante vederlo parare in quella grande squadra. Chissà come sarebbero andate le cose.
Per fortuna che almeno una manifestazione da protagonista con l’Italia riuscì a farsela (quando trionfammo nel 2006 si trovò a fare il vice di Gianluigi Buffon). Erano gli Europei del 1996 organizzati dall’Inghilterra. Un grande torneo che i nostri abbandonarono troppo presto. Per Peruzzi appena tre partite. Forse troppo poco per far vedere a milioni di persone di che pasta era fatto. Eppure, qualche settimana prima, la Juventus si aggiudicò la Coppa dei Campioni anche grazie alle sue parate. E quella notte, a Roma, il suo talento finì per emergere.
Alessandro
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