I Midlake sono indubbiamente una delle band che ascolto con maggior frequenza da circa otto anni a questa parte. Come già accaduto per altri gruppi provenienti dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti, a cui resto legato ancora oggi, fu il caro Massimo Giangrande, talentuoso cantautore e musicista romano, a parlarmene, e per questo continuo a ringraziarlo. D’altronde, nel tempo, questo complesso formatosi in Texas sul finire del secolo scorso mi ha regalato grandi emozioni a più riprese attraverso canzoni magistrali incluse in dischi pazzeschi, ricolmi di sperimentazione e, alle volte, di pregevoli rimandi a un folk rock simile a quello sviluppato in passato da fenomeni del calibro di Neil Young e David Crosby.
La musica dei Midlake è profonda e suggestiva al tempo stesso, denota una ricerca attenta pur apparendo fluida e spontanea. Si tratta di un complesso musicale notevole, composto da numerosi elementi, il che è sinonimo di affiatamento e professionalità, altrimenti non si riuscirebbe a tenere la flotta a galla troppo a lungo. A un primo e rapido ascolto, questi ragazzi molto preparati dal punto di vista tecnico non sembrerebbero essere originari dell’America, specialmente di quella meridionale che si affaccia sull’Oceano Atlantico: in album come “The Trials of Van Occupanther” del 2006 e “The Courage of Others” del 2010, entrambi strepitosi e forse le migliori cose che abbiano mai inciso, si sentono atmosfere più vicine alla tradizione europea. Non credo che questo aspetto sia tanto marginale e, più che altro, ritengo sia anche abbastanza evidente nel momento in cui ci si concentra sull’ascolto.
Probabilmente è questa loro particolarità, questa tendenza a costruire un sound raffinato, intimista, contaminato e vagamente psichedelico, a farmi accostare i Midlake ai Radiohead, che sono inglesissimi in quanto nativi di Oxford. Non so perché, ma trovo nella loro musica qualche elemento che si riesce a scorgere in quei pezzi di Thom Yorke e soci dove l’elettronica viene meno e le chitarre acustiche ed elettriche prendono il sopravvento. Per anni li ho ritenuti i Radiohead americani, e se in alcuni momenti un’associazione simile mi appare quasi esagerata, in altri mi convinco che il paragone possa reggere, seppur con le dovute proporzioni.
Mettendo da parte eventuali somiglianze con gente che ha fatto la storia del rock, Eric Pulido e compagnia bella meriterebbero una maggiore attenzione, soprattutto in Italia, dove di questi eccellenti musicisti non si è mai parlato abbastanza. L’abbandono di Tim Smith, fino al 2012 voce principale del progetto ma poi intenzionato a proseguire da solo, ha comportato un netto cambio di stile e ciò si è avvertito parecchio nell’album “Antiphon”, uscito circa un anno dopo – nel 2013 – e, ad oggi, l’ultimo lavoro in studio dei Midlake. Non è chiaro se questa quarta raccolta di inediti avrà prima o poi un seguito, in ogni caso una band del genere ha dimostrato con una manciata di dischi di avere un potenziale incredibile.
Mi rendo conto del fatto che nel 2020 la frenesia tipica di un’epoca piena di impegni e distrazioni varie non invogli le persone a mettersi a sentire cose nuove nonché particolari. Tuttavia, al di là dei gusti, al di là di una possibile predilezione per il blues o per la disco music, così come per il punk o la bossa nova, basterebbe sentire anche la metà dei pezzi inclusi in un disco firmato dai Midlake per capire di chi stiamo parlando. Perdersi l’opportunità di conoscerli sarebbe un peccato. Io sono stato fortunato ad arrivare alla loro musica per merito di un amico che di musica ne mastica, e spero riusciranno a farlo tante altre persone negli anni a venire. Almeno fino a quando questi artisti di Denton decideranno di andare avanti.
Alessandro
Leave a Reply