Un po’ di anni fa ho creato nel blog questa categoria, ribattezzata #pezzidipersone, con l’intento di dedicare qualche riga a quei musicisti, quegli scrittori, quegli attori, quei registi stranieri che, in un modo o nell’altro, risultano essere oggi per me estremamente importanti in quanto capaci di creare nel tempo opere imprescindibili per il mio “nutrimento” culturale.
Avendo acceso i riflettori su songwriter magistrali quali Amos Lee, Ben Howard, Ray LaMontagne e Bonnie “Prince” Billy, non posso escludere dalla “cerchia” Piers Faccini. Per quanto in Italia un nome simile venga puntualmente escluso dalle playlist delle radio più gettonate così come dalle pagine dei giornali e dai format televisivi di settore, ritengo senza esagerare che si tratti di un portento: a partire dall’inizio del nuovo millennio, l’artista in questione, di nazionalità inglese ma di origini italiane, ha sfornato una quantità incredibile di canzoni e dischi.
La cosa incredibile è che nonostante l’enorme e sorprendente prolificità, il buon Piers non ha mai deluso le aspettative. Disco dopo disco, è emersa la sua naturale anima musicale fatta di curiosità, bravura, ricerca, concretezza, sperimentazione. Non credo sia il caso di cominciare ad elencare le sue tante collaborazioni concluse nel tempo (ricordo solo le aperture dei concerti di Ben Harper successive alla pubblicazione di “Leave No Trace”). Ciò che posso dire è che ogni suo album è sinonimo di eleganza pura: siamo di fronte ad un cantautore che, in studio, non lascia nulla al caso, provvedendo a curare in maniera perfetta qualsiasi aspetto in fase di scrittura e di produzione. Va da sé che il risultato sia di volta in volta eccellente.
Nel maggio del 2010 ebbi la fortuna di vedere dal vivo questo prodigio (era di scena all’Alpheus, in zona Ostiense, coinvolto in una serata alla quale presero parte pure i Calibro 35 e Roberto Dell’Era). Circa un anno e mezzo dopo, il caro Massimo Giangrande, che oltre ad essere un musicista immenso è innanzitutto un ascoltatore rigoroso, mi invitò a sentire l’album “My Wilderness” non solo per notare le spessore delle canzoni incluse nella raccolta, ma soprattutto per porre attenzione sul favoloso contributo del trombettista Ibrahim Maalouf a livello di arrangiamento. Una volta sentita quella raccolta di inediti andai letteralmente in estasi. Quasi un punto di non ritorno.
Alessandro
Leave a Reply