Amos Lee, qualcosa di vicino alla perfezione

Ho una certa predilezione per i cantautori statunitensi. Non solo per quelli della vecchia guardia, ma anche per i “nuovi”. Chi mi conosce bene lo sa: sono sempre alla ricerca di autori interessanti, intendo gente che abbia qualcosa da dire sia a livello testuale sia a livello musicale. Ammiro moltissimo quelli che tenendo i piedi ben saldi nella tradizione cercano ogni tanto di contaminare il proprio sound attraverso l’utilizzo di spunti elettronici (penso ad Iron & Wine, Sufjan Stevens, José James). E poi ho un debole per quelli che puntano all’essenzialità degli arrangiamenti recuperando il blues, il country, il folk, il jazz e il soul. Un artista che in tal senso non mi delude mai è Amos Lee. Qui in Italia non è molto conosciuto, ma in America può vantare un grande seguito: parliamo di un autore in grado di far registrare parecchi sold out quando è in tour con la band per promuovere un disco nuovo.
Nel 2005 Amos Lee pubblicò un eponimo disco d’esordio favoloso, probabilmente il disco più bello da lui mai realizzato. Lo dico con grande franchezza, nonostante “Amos Lee” (rilasciato per la Blue Note Records) non sia il mio disco preferito, visto che resto sempre legato al bellissimo “Mission Bell” del 2011, album magnifico ma passato incredibilmente inosservato. Ecco, in quel suo primo disco d’inediti emerge un talento incredibile. In primis la voce, qualcosa di estremamente affascinante. Poi c’è una scrittura molto semplice ma al contempo intensa, ispirata e poco banale, sorretta alla grande da una musica altrettanto elementare eppure godibilissima, se non altro per quelle incantevoli sfumature bluesy e jazzy. Un album perfetto, davvero. Lo ascolto sempre troppo poco, ma ogni volta che lo metto su non sottovaluto mai quel misto di leggerezza e malinconia che rende l’album “Amos Lee” a dir poco sublime. Poi il resto della sua produzione è tanta roba, ma ne riparleremo da queste parti più in là. Sicuramente.

Alessandro

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